Angela Mucciolo, Dottore in Scienze e Tecnologie delle Produzioni Animali
Claudio Mucciolo, ASL di Salerno, Dipartimento di Prevenzione – Direttore f.f. UOC Igiene e Sicurezza Alimenti di O. A.
Viviamo in un’epoca di forte consumismo, in un mondo saturo, costretto ad ospitare un numero crescente di persone che comportano come conseguenza dinamiche di sviluppo produttivo per far fronte ad una domanda incrementale.
Negli ultimi secoli c’è stato un notevole aumento della popolazione mondiale, con una crescita che ha accelerato drasticamente a partire dal 1700 fino agli anni ’60, raggiungendo un picco di oltre il 2% annuo. Al giorno d’oggi, siamo arrivati a circa 8 miliardi di persone, con una tendenza attuale che suggerisce il raggiungimento di 9 miliardi nel 2036 e di 10 miliardi nel 2058. Cominciando a frammentare questo numero così grande otteniamo già il primo indizio, l’Asia.
La popolazione mondiale ha visto un tasso di crescita importante dagli anni ’50 del ‘900 ad oggi. Ad esempio, l’Africa ha più che quadruplicato i suoi abitanti, così come l’America Latina; l’Europa ha invece visto un aumento di circa il 50%. Tuttavia, se si osserva il numero in valore assoluto, la concezione del tema cambia drasticamente. Basti pensare che proprio il continente asiatico ha visto più che triplicato la sua popolazione, passando da 1.4 a 4.6 miliardi di abitanti, con Cina ed India come nazioni trainanti del continente. In valori assoluti, si sta parlando di un numero che supera abbondantemente la metà dell’intera popolazione globale. Prendendo questo primo dato come punto di partenza, è bene addentrarsi ulteriormente nell’analisi, andando a sezionare le informazioni presenti relative al rapporto con l’industria della carne e derivati.
Dalla metà del ‘900 ad oggi, la produzione di carne e derivati animali ha registrato una vera e propria esplosione, in perfetto allineamento con la crescita e successiva domanda della popolazione mondiale. Nel 2021 si è prodotta una quantità di carne 7 volte superiore rispetto a 70 anni fa, da 50 circa a 350 milioni di tonnellate, una quantità di latte più che raddoppiata, toccando i 900 milioni di tonnellate prodotte e una quantità di uova che ha visto la crescita percentuale più esponenziale in assoluto, passando da circa 20 milioni di tonnellate prodotte fino a raggiungere quota 90 milioni. Tra questi numeri, l’Asia rappresenta il primo produttore mondiale sia di carne che di derivati animali, ricoprendo sempre una percentuale che va tra il 30 e il 50% sul totale. Aspetto curioso sorge nel momento in cui si nota che questi dati non coincidano affatto con il consumo di prodotti di origine animale nel mondo, anzi, il trend sembra proprio essere inversamente proporzionale. Infatti, tra i top 3 continenti in termini di consumo di carne troviamo il Nord America, l’Oceania e il Sud America; l’Asia al penultimo posto, vede dopo di sé solamente l’Africa, quale ricopre questa posizione per ragioni esclusivamente legate alla disponibilità di risorse del territorio e per fattori meramente economici. Per quanto concerne il consumo di latte, anche in questo caso, Asia e Africa ricoprono gli ultimi due posti della classifica, mentre i primi tre posti vengono assegnati a Europa, Nord America e Oceania. Leggera eccezione si ritrova nel consumo di uova, alimento importante nella dieta orientale. Questo fattore, infatti, giustifica una lieve scalata nella classifica dei continenti, quale trova all’ultimo posto sempre l’Africa seguita ora dall’Oceania e poi dall’Asia. Nord America, Europa e Sud America sono invece i continenti che più consumano uova. A questo punto emerge un dettaglio significativo: i dati rivelano che il tasso percentuale di crescita nel consumo di carne sta effettivamente aumentando, parallelo a un incremento di produzione di carne il quale è significativamente più rapido e costante rispetto ai consumi. Sorge quindi un interrogativo spontaneo: quale è il destino di tale discrepanza tra produzione e consumo? La risposta si può articolare su tre punti. È bene sapere che questa industria produce cibo anche per animali stessi, non solo per esseri umani. Infatti, il mangime di origine animale è destinato anche ad animali domestici, di corte e d’allevamento intensivo. Allo stesso tempo, questa filiera alimenta altre industrie, da quella tessile a quella cosmetica e farmaceutica, per la creazione di prodotti, quali abbigliamento, accessori, cosmetici, farmaci, prodotti chimici ecc.
Infine, il terzo punto coinvolge una grande problematica legata allo spreco di cibo che, se pur prodotto, viene poi gettato nella spazzatura e quindi non consumato. Va evidenziato come ogni anno, circa un terzo degli alimenti prodotti viene infatti inutilizzato o perso. È evidente pertanto, come l’Asia sia, almeno sotto il punto di vista di questa filiera, il continente con maggior influenza e controllo sul mercato, e un continente americano, comprensivo di Stati Uniti e America Latina, che si dimostra consumatore numero uno nel mondo di alimenti di origine animale.
Dopo questo primo risultato molto interessante, è stato possibile approfondire ulteriormente l’impatto che questa industria ha sull’ecosistema globale, a livello ambientale, culturale e sulla salute umana, con numeri che hanno potuto conferire un riquadro ancora più definito e chiaro. Andando con ordine, risulta sensato considerare come punto di partenza l’Olocene, periodo storico risalente a circa 10.000 anni fa. È proprio qui che si registrano le prime conseguenze umane sull’ecosistema terrestre. Fu proprio con le prime forme di allevamento e agricoltura e con la caccia che si certificò il primo caso di deforestazione e la prima diminuzione registrata di mammiferi sulla terra con l’estinzione di quasi 180 specie, avvenuta nel suddetto periodo, conosciuto come “Megafauna”. Una piccola parte di ricercatori cerca ancora oggi di giustificare quanto appena rivelato attraverso l’avvenimento di cicli terrestri legati al cambiamento climatico, il quale avrebbe appunto portato a questa rapida diminuzione della fauna. In opposizione, la fetta più consistente di esperti, quale ritiene in modo fermo e convinto quanto quello verificatosi sia invece il primo risultato di cui abbiamo prove dell’impatto dell’azione umana sulla terra. In quell’epoca, la copertura terrestre era principalmente composta da foreste, prati e arbusti, che rappresentavano il 71% della superficie totale, equivalente a 10,6 miliardi di ettari. La stragrande maggioranza di questa superficie forestale era costituita da foreste per il 57%, pari a 6 miliardi di ettari. La restante percentuale di terra includeva deserti, ghiacciai e terreni aridi. Questi dati se comparati a 5.000 anni fa,
rivelano un notevole cambiamento, quando la copertura forestale era diminuita ulteriormente del 2%. Nel XVIII secolo, la copertura forestale si ridusse del 3%, per poi diminuire ulteriormente del 5% nei due secoli successivi. Negli ultimi cento anni, questa perdita di foreste ha subito una notevole accelerazione, equivalente a quanto perso nei precedenti 9.000 anni. Attualmente, le foreste occupano soltanto il 31% della superficie terrestre, corrispondenti a 4,06 miliardi di ettari, questo a causa di fenomeni legati principalmente all’agricoltura e all’urbanizzazione. La deforestazione è solo uno tra i diversi sintomi dell’impatto umano sulla terra. Negli ultimi secoli, infatti, il palmare di problematiche si è arricchito, ragion per cui è essenziale citare, tra i tanti, l’inquinamento dell’aria con le emissioni di gas serra e il consumo di risorse idriche.
I gas ad oggi più impattanti presenti nell’atmosfera terrestre sono anidride carbonica, il più presente tra tutti è il Metano, l’Ossido di Azoto e i gas fluorurati. La Seconda Rivoluzione Industriale, a partire dalla metà del XIX secolo, indica l’inizio dell’incremento di questi gas nell’atmosfera. Fino alla metà del XX secolo questo incremento si rivela relativamente contenuto, raggiungendo un totale di 6 miliardi di tonnellate. Da quel momento in poi, in tutti i continenti si verifica una crescita costante ed esponenziale. Entro il 1990, questa quantità aumenta di quasi quattro volte, superando i 22 miliardi di tonnellate. Le emissioni hanno poi continuato ad intensificarsi, registrando oggi il rilascio annuale di 34 miliardi di tonnellate. Ancora una volta, anche in tema di emissioni di gas serra, torna come protagonista il continente asiatico. L’Asia, infatti, ha sperimentato un notevole aumento delle emissioni di CO2 a partire dagli anni 2000, raggiungendo un totale di 21,6 miliardi di tonnellate emesse nel 2021. Questo andamento è in netto contrasto con quanto osservato in Nord America ed Europa, dove, sempre nel 2021, invece si sono verificate riduzioni delle emissioni negli ultimi 20 anni, con quantità rispettivamente di 6,14 miliardi di tonnellate per il Nord America e 5,31 per l’Europa. Entrando nello specifico, l’impatto che la filiera della carne e dei derivati ha all’interno di questo frangente, si può rivelare che l’intero sistema di produzione alimentare genera annualmente circa 17,3 miliardi di tonnellate di gas serra, rappresentando il 35% di tutte le emissioni globali. Di questo 35%, le emissioni legate direttamente all’allevamento intensivo costituiscono il 57%, mentre il 29% proviene dalla coltivazione di prodotti vegetali, utilizzati poi nella fase di nutrizione del bestiame.
Il restante 14% proviene da altri utilizzi del suolo, indirettamente coinvolti in questa industria, come la coltivazione di cotone o gomma. Degno di nota, come la produzione di carne bovina rappresenti un quarto delle emissioni derivanti dall’allevamento e dalla coltivazione alimentare. Per quanto riguarda la produzione di derivati animali, si può constatare che la produzione di uova e latte è responsabile rispettivamente di 250 milioni e 1,6 miliardi di tonnellate di CO2 emesse, solamente nel 2021.
Sul fronte del consumo delle risorse idriche, i dati evidenziano come anche in questa istanza l’impatto sia a dir poco allarmante. Nel XX secolo, l’uso globale di acqua dolce è aumentato notevolmente a causa della crescita della popolazione mondiale e dei cambiamenti nei modelli di consumo. Attualmente, l’agricoltura costituisce circa l’85% del consumo totale di acqua dolce da parte dell’umanità, seguita dal consumo legato all’urbanizzazione e ad attività varie nella sfera della produzione aziendale. Ad esempio, gli stessi allevamenti utilizzano grandi quantità di acqua, per scopi igienici, di gestione del bestiame, abbeveraggio e nel trattamento conclusivo del prodotto finito, come cottura della carne o pastorizzazione di latte e uova. Frammentando questo grande numero di acqua consumata per tipologia di carne o derivato animale, si trova la carne di manzo in cima alla lista, quale richiede fino a 200.000 litri per kg. La carne di pecora richiede 10.400 litri per kg, mentre quella di maiale 5.990 e di pollo 4.330. D’altra parte, i prodotti lattiero-caseari richiedono anche una quantità significativa di acqua, ad esempio, un litro di latte richiede 1.020 litri d’acqua e un kg di formaggio ne richiede 5.060. Un uovo richiede circa 200 litri d’acqua. Come metro di paragone, la produzione di alimenti di origine vegetale necessita quantità d’acqua decisamente più ridotte, soprattutto se paragonate alla carne. Il riso comporto l’uso di 2.500 litri per kg, la soia 2.145, il grano 1.827, il mais 1.220 e le patate solo 290. È importante notare che, nel caso della soia, più dell’80% di questa viene utilizzata come mangime per animali. Di questo totale, una maggioranza netta del 37% viene dedicata agli allevamenti avicoli, seguita da un 20% agli allevamenti suini. Le acquaculture coprono un 5,6% seguite dagli allevamenti bovini con un 1,9%, un 4,9% comprensivo di tutti gli allevamenti rimanenti ed infine un rimanente 7% di altro non specificato. Queste conseguenze condividono un fattore comune, ovvero l’essere impattanti in un ecosistema esterno che condividiamo con altri esseri viventi. Oltre a queste, è bene essere a conoscenza delle implicazioni che hanno i prodotti di origine animale anche sul nostro organismo se ingeriti.
La malnutrizione è al giorno d’oggi uno dei principali fattori che comporta lo sviluppo diretto di malattie croniche cardiache, respiratorie e tumorali, può inoltre essere responsabile fino all’80% di casi di cancro al seno, colon e prostata. Solo negli Stati Uniti, muoiono ogni anno più di un milione di persone a causa di diete malsane. La scienza per anni ha studiato, e continua a studiare, il reale significato di “alimentazione sana”, ma, date le diverse scuole di pensiero, non si è ancora raggiunto un reale allineamento. Nonostante queste divergenze, risulta invece possibile esprimere pareri e ragionamenti sul tema dieta legato al consumo o meno di alimenti di origine animale. In tempi più remoti vennero utilizzati modelli, come il protein efficiency ratio, l’amino acid score, protein digestibility-corrected amino acid score, metodi scientifici i quali andavano a misurare la purezza e bontà delle sole proteine dei diversi alimenti, tenendo in considerazione la variazione del peso corporeo, il comportamento degli amminoacidi e altri aspetti tecnici medici. Questi approcci si rivelarono tuttavia inesatti e imprecisi, tenendo conto del fatto che non consideravano minimamente quelli che erano gli impatti negativi a livello di salute, ma focalizzandosi solo ed esclusivamente su conseguenze fisiche positive. Quando l’attenzione fu spostata dalla sola proteina, iniziarono a essere considerati anche i livelli di grassi negli alimenti, in particolare la loro composizione in termini di grassi saturi, insaturi e contenuto di colesterolo. Fu proprio qui che emersero dettagli nuovi e piuttosto curiosi; i prodotti di origine animale risultavano contenere quantità di grassi saturi, quali tendono ad aumentare i livelli di colesterolo, superiori rispetto a quelli di origine vegetale. Quest’ultimi, invece, conterrebbero quantità di grassi insaturi ben più elevate, grassi considerati più sani in quanto possono abbassare i livelli di colesterolo e di conseguenza il rischio di malattie cardiache. Per di più, si è evidenziato come vi sia una correlazione positiva tra consumo di carne e sviluppo di cancro al seno, colon e prostata. In particolare, sembrerebbe che la carne rossa e i prodotti alimentari a base di carne animale maggiormente processati, siano le due categorie che espongono l’organismo maggiormente a rischio tumore, venendo definite dall’OMS come categorie alimentari cancerogene. Spostando l’attenzione sui prodotti lattiero-caseari, si è invece dimostrato che, a causa della presenza della caseina, la proteina del latte, il consumo di questi alimenti aumenterebbe significativamente i livelli dell’ormone della crescita, il quale è associato all’incremento del rischio di sviluppare il cancro. In aggiunta, si sospetta che questa categoria di prodotto sia direttamente correlata ad altre patologie, tra cui il diabete, l’ictus, le malattie cardiovascolari e la demenza.
Per quanto riguarda invece le diete vegetariana e vegana, entrambe sono ricche di carboidrati, acidi grassi n-6, fibre alimentari, carotenoidi, acido folico, vitamina C, vitamina E e magnesio. A livello di carenze, contengono quantità inferiori di proteine, grassi saturi, acidi grassi n-3 a catena lunga, retinolo, vitamina B12 e zinco. Per compensare questi deficit, i vegani e i vegetariani spesso integrano la loro dieta con vitamina B12 e calcio mediante l’uso di integratori o diete ben strutturate assieme ad esperti. Ad ogni modo, è stato scientificamente certificato che vegetariani e vegani in media presentano un indice di massa corporea relativamente basso e livelli ematici di colesterolo inferiori rispetto agli onnivori. Oltre a ciò, tra coloro che seguono queste diete, sembra esserci una riduzione moderata del rischio di mortalità per malattie cardiovascolari.
Come conseguenza del tipo di alimentazione adottata, è logico pensare che una persona onnivora avrà un impatto ambientale diverso rispetto ad un vegano. I grandi consumatori di carne emettono in media 10,24 kg di gas serra al giorno, mentre i consumatori moderati ne emettono circa la metà, ovvero 5,37 kg al giorno. I vegani, d’altra parte, emettono solo 2,47 kg al giorno. In particolare, le emissioni di CO2 dei vegani rappresentano solo il 30,3% di quelle dei grandi consumatori di carne. Anche la quantità di carne consumata fa la differenza, con i consumatori di carne leggera che emettono solo il 57,2% di CO2 rispetto a chi consuma molta carne. Il metano, associato all’allevamento di ruminanti, porta a notevoli differenze nelle emissioni tra i diversi gruppi alimentari, con i grandi consumatori di carne che emettono 15,3 volte più metano rispetto ai vegani. Le emissioni di ossido di azoto sono anche significativamente più alte nei grandi consumatori di carne, con una differenza di 3,6 volte rispetto ai vegani. Questi dati evidenziano l’importanza di considerare l’impatto ambientale del consumo di carne e suggeriscono che ridurre il consumo di carne potrebbe contribuire a ridurre le emissioni di gas serra e altri impatti ambientali associati al sistema alimentare globale.
Per questo ultimo motivo, negli ultimi tempi, ha guadagnato sempre più importanza un’industria che può essere considerata a tratti rivoluzionaria: l’industria dei prodotti a base vegetale e coltivati in laboratorio. Questa filiera coinvolge sia il settore delle carni che dei prodotti derivati dagli animali. Quando parliamo di plant-based e cell-based, ci riferiamo a cibi prodotti con diverse tecniche che rappresentano oggi delle alternative vegetali ai prodotti tradizionali, cercando di replicarne il sapore, la consistenza e il valore nutrizionale, ma con un impatto ambientale notevolmente inferiore rispetto alle loro controparti animali, come descritto finora.
Per quanto concerne la carne, uno scenario utopico può aiutarci a capire meglio come il nostro impatto cambierebbe se la popolazione mondiale adottasse d’improvviso una dieta prevalentemente vegetale. Comporterebbe una significativa diminuzione dell’uso complessivo dei terreni agricoli, calcolata al 75%, principalmente dovuta alla riduzione del pascolo e alla necessità di terreni coltivati. Questo cambio ridurrebbe inoltre del 90% il consumo di acqua e del 40% il consumo di energia rispetto alla produzione tradizionale. Dal punto di vista della salute umana, ci sarebbe una riduzione delle malattie cardiovascolari e di alcune malattie legate all’alimentazione. Si osserverebbe una significativa diminuzione della diffusione di patogeni alimentari legati all’allevamento intensivo, come Salmonella, Campylobacter ed Escherichia coli, con conseguente miglioramento della salute pubblica e una minore probabilità di epidemie zoonotiche.
Sul fronte delle alternative vegetali dei derivati animali, invece, si incontrano due scenari, prodotti lattiero-caseari e uova. Se pur siano due industrie ancora in fase di sviluppo, rappresentano, come nel caso delle alternative vegetali della carne, la più grande frontiera di innovazione alimentare.
Circa i prodotti lattiero-caseari vegetali, ad oggi si offrono sul mercato una varietà molto ricca di prodotti, derivanti da cereali, legumi, frutta secca e semi. L’impatto che questi presentano rispetto ai prodotti tradizionali è di notevole importanza. Le emissioni di gas serra provocate dalla produzione di prodotti lattiero-caseari tradizionali sono in media tre volte superiori, così come l’uso del suolo è circa dieci volte maggiore. Il consumo di acqua dolce associato ai prodotti lattiero-caseari varia da due a venti volte di più rispetto alle alternative vegetali, con un significativo aumento dell’inquinamento eutrofico. In quanto alle uova, dato lo stato embrionale del progetto, non sono ancora presenti dati veritieri e aggiornati del potenziale cambio che potrebbero apportare, nonostante questo, le ricerche d’inizio ripongono grandi aspettative nel piano.
La ricerca ha chiaramente dimostrato quanto sia negativo l’impatto dell’industria della carne e dei suoi derivati sotto molteplici aspetti, che spaziano dall’ambiente alla salute umana, dall’etica al mancato rispetto verso gli altri esseri viventi con cui condividiamo il pianeta. Questo atteggiamento, puramente antropocentrico e specista, ha comportato una serie di problemi significativi che ora richiedono una soluzione. Il futuro non è solo una questione di possibilità, ma una necessità urgente. La Terra sta dando chiari segnali di sofferenza, con diversi sintomi, dovuti all’attuale modello alimentare e industriale, per cui un’azione istantanea è ora essenziale. Le alternative a base vegetale rappresentano una via chiara e sostenibile per affrontare queste sfide. Non solo rappresentano una scelta eticamente più consapevole, ma offrono anche la possibilità di ridurre l’impatto ambientale e migliorare la salute umana. Il passaggio verso queste alternative è una risposta imperativa e imprescindibile per garantire un futuro sostenibile per il nostro pianeta e per le generazioni future.